C'ERA UNA VOLTA

Bellezza e delirio del Pescara di Zeman

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A fine agosto 2011, il Pescara viaggia verso Verona per la gara d’esordio del campionato di Serie B contro l’Hellas. Riccardo Maniero, punta napoletana con un passato nella primavera della Juventus, scherza coi compagni, sicuro di occupare il centro dell’attacco al Bentegodi: è alla seconda stagione in Abruzzo e ha giocato da titolare nelle amichevoli e in Coppa Italia. C’è un problema però: è ancora estate, Maniero non sopporta il caldo e ha arrotolato i pantaloni della sua tuta fino al ginocchio, dettaglio stilistico che non piace molto a Zdenek Zeman, nuovo allenatore del Pescara. «Si avvicinò Cangelosi (vice di Zeman nda) e mi disse che non era un bel vedere» racconta Maniero «però la temperatura era superiore ai 30 gradi e non li abbassai». Non dev’essere l’unica insubordinazione di Maniero quell’anno: si dice, per esempio, che fosse ghiotto di cioccolatini e che Zeman lo rimproverasse di essere stato l’unico calciatore incapace di dimagrire con i suoi allenamenti.

La figura dell’allenatore-tiranno illuminato, come l’ha definita Emiliano Battazzi in un articolo su Marcelino, è suscettibile a ogni minuzia, pretende di controllare ogni aspetto comportamentale dei suoi uomini, in campo e fuori: è una questione di forma mentis dei giocatori, prima che di utilità pratica in campo. Il boemo, è risaputo, appartiene alla categoria: «Quando arrivammo allo stadio, Zeman mi disse di andare in tribuna».

Il posto di Maniero, al Bentegodi, lo prende Ciro Immobile, promessa delle giovanili juventine che dopo aver riscritto i record del Torneo di Viareggio sembra già in caduta verso l’anonimato: l’anno prima, sballottato in prestito tra il Siena di Conte e il Grosseto, segna appena due gol in venti presenze. Quel pomeriggio per l’attaccante di Torre Annunziata si chiude alla grande: il Pescara vince 2-1 e lui segna il primo gol, di testa, grazie a uno smarcamento sul secondo palo. È così che inizia la storia di una delle squadre di culto dello scorso decennio di calcio italiano.

Il Pescara di Zeman è divertimento puro, verticalità, sovrapposizioni, tagli dietro la difesa, novanta gol in quarantadue partite, secondo migliore attacco della storia della Serie B. Ma è anche tragedia, nelle morti di Franco Mancini, storico portiere del Foggia e collaboratore di Zeman, e di Piermario Morosini, che perde la vita proprio all’Adriatico di Pescara. È, soprattutto, la storia di Ciro Immobile, Lorenzo Insigne e Marco Verratti, amici ventenni all’epoca e oggi campioni d’Europa. Incuriosisce sempre, a tanti anni di distanza, osservare un talento affermato nelle sue prime partite: la supremazia tecnica o fisica è evidente, ma il giocatore è ancora selvatico, come una mora in mezzo ai rovi, laddove i rovi sono i derelitti stadi di Serie B. È interessante, allora, notare cosa sia cambiato e cosa invece sia rimasto uguale nel calcio di tre dei giocatori più importanti del nostro paese, campioni d’Europa.

Come nasce il Pescara di Zeman

Alla fine del campionato di Serie B 2010/11, dominato dall’Atalanta e dal Siena di Conte, il Pescara di Eusebio Di Francesco si piazza a metà classifica e raggiunge una salvezza tranquilla. È il culmine di un anno e mezzo in cui il tecnico abruzzese riporta i biancazzurri in Serie B e gli fornisce un’impronta di gioco riconoscibile. La società spera di rinnovare il suo contratto, ma per Di Francesco arriva un’occasione imperdibile: il Lecce, allora in Serie A, gli offre la panchina. Di Francesco va in Puglia e con lui abbandonano alcuni dei giocatori più esperti del Pescara. La squadra è da rifondare, bisogna abbassare l’età media e così la scelta del nuovo allenatore ricade su Zeman, reduce da una buona stagione in Prima divisione di Lega Pro con il Foggia. Dopo più di vent’anni, si rinnova il connubio tra le opere migliori del boemo e la filiera della pasta: se a Foggia, a fine anni ’80, le sue idee avevano attecchito grazie alla fiducia del Re del grano, Don Pasquale Casillo, a Pescara , invece, trova l’appoggio di Peppe De Cecco, che aveva salvato la società dal fallimento nel 2009 (e che a stagione in corso avrebbe lasciato la presidenza a Daniele Sebastiani).

Zeman, come suo solito, richiede al ds Delli Carri giocatori con cui abbia già lavorato e che possano fare da traino per impiantare le sue idee. Così, tra i pali, oltre al portiere dell’U21-Pinsoglio, arriva Luca Anania, già allenato dal boemo ad Avellino e a Lecce e abile nel gioco lungo coi piedi. Da Foggia, il tecnico porta con sé il difensore centrale Simone Romagnoli, oggi capitano dell’Empoli, e Moussa Koné, mezzala ivoriana di proprietà dell’Atalanta.

Sempre dai satanelli, in attacco, il primo obiettivo è Lorenzo Insigne. In rossonero, l’ala di proprietà del Napoli ha dimostrato di appartenere ai professionisti nonostante la statura: in trentatré presenze ha segnato diciannove gol – suo record fino allo scorso anno – e sembra perfetto per i dettami di Zeman, con la palla e senza. Serve l’intercessione diretta del boemo per consentire a Delli Carri di chiudere l’affare: Insigne è già in parola con il Crotone, che quell’estate avrebbe ingaggiato anche Florenzi e Nicola Sansone, mancano solo le firme. Zeman, però, gli chiede di seguirlo a Pescara e Insigne non ci pensa su due volte.  Il pubblico dell’Adriatico si innamora di lui già nel precampionato: svela il suo talento in un’amichevole contro la Real Sociedad di Montanier – che nella stagione successiva avrebbe raggiunto la Champions League – e si prende il cuore dei pescaresi in Coppa Italia, contro la Triestina, dove segna una doppietta. Questa in basso è una clip del secondo gol. No, non è un video specchiato per motivi di copyright: quello che vedete è davvero il tiro a giro di Insigne scoccato col sinistro, una rarità assoluta nel suo repertorio.

 

Rimane da trovare una punta alternativa a Maniero; così, dopo la metà di agosto, si chiude per il prestito di Ciro Immobile dalla Juventus. Per la punta di Torre Annunziata, Pescara rappresenta l’ultima occasione di non rimanere un fenomeno da campionato primavera. In un’intervista a TuttoMercatoWeb, che è un po’ un riflesso del suo stato d’animo in quel momento, cerca di mantenere basse le aspettative sul suo obiettivo minimo di gol: «Per me dopo un anno tra luci e ombre è importante far bene. Spero di segnarne più di dieci» afferma, con parole di chi ha poco da aspettarsi dal futuro. Chi sembra nutrire più fiducia di Immobile stesso nelle sue prospettive a Pescara, è l’amico Fabio Quagliarella. Prima del prestito, in tournée negli Stati Uniti con la nuova Juve di Conte, Quagliarella mette sul piatto una scommessa: pronostica a Immobile una stagione da venti gol, con ottimismo del tutto immotivato in quel frangente, o forse solo fiducioso negli schemi offensivi di Zeman. Il campo darà ragione a Quagliarella, visto che Immobile  di gol ne segna ventotto e si dimostra un terminale perfetto per il boemo. A differenza di Insigne, peraltro, l’ex centravanti della Juve non era proprio il primo nome sulla lista del tecnico: «Su un attaccante che aveva fatto un solo gol, in quel momento, non puntava nessuno» racconta Delli Carri «Io spingevo perché secondo me era il giocatore adatto a noi come società. Poi è diventato il giocatore adatto a Zeman, nonostante non avesse “la lampadina accesa” nei suoi confronti, forse perché lo conosceva poco».

L’intrigo di mercato più importante, però, Delli Carri lo affronta dietro le quinte e per fortuna sfuma in un nulla di fatto. Rino Foschi, uomo di Zamparini a Palermo e direttore sportivo del Padova, offre 2 milioni e mezzo più due giocatori per Marco Verratti. Il Padova è una delle favorite per la vittoria del campionato. L’anno prima, trascinato dal diciottenne Stephan El Shaarawy, ha sfiorato la vittoria dei playoff. Ha acquistato due fuoriclasse della categoria come Cacia e Cutolo e a centrocampo vanta una serie di nomi da Serie A: Marcolini, Italiano, Bentivoglio, Milanetto. Di Verratti nei forum si parla da almeno un paio di stagioni, per gli appassionati di Football Manager è un nome più che noto. Ha esordito in Serie C contro il Crotone con sedici anni da compiere, nell’estate del 2008. Chi lo vede giocare rimane sempre sbalordito dal suo controllo nello stretto. «Era fantastico nell’uno contro uno» dice “Nanu” Galderisi, suo primo allenatore tra i grandi «lo feci esordire a Bergamo in Coppa Italia, senza paura. Verrattino aveva quel qualcosa in più, mi divertiva».

Dall’esordio di Verratti in Serie C1, a 15 anni e 10 mesi contro il Crotone, con il numero dieci – in Lega Pro all’epoca c’erano ancora i numeri dall’1 all’11 per i titolari – e i capelli lunghi e biondi. Incredibile ma vero, ammonito anche alla sua prima partita in un campionato.

Anche la carriera di Verratti, però, fatica a decollare. Sta per iniziare il quarto anno tra i professionisti, ma non si capisce bene dove possa rendere al meglio. In primavera giocava da trequartista o addirittura da ala, i ruoli in cui sembrava poter mettere più a frutto il suo dribbling. Di Francesco, dopo averlo testato in entrambe le posizioni, lo arretra mediano in un 4-4-2, ma non ripone troppa fiducia in un giocatore così acerbo per presenza fisica. Oltretutto è un ragazzo fragile, incline agli infortuni. Per fortuna, la preparazione con Zeman passa indenne, così De Cecco e Sebastiani si convincono a non venderlo: è lecito pensare che a Padova, con quella concorrenza a centrocampo, avrebbe trovato poco spazio.

Come gioca il Pescara

Il livello del campionato di Serie B 2011/12 è molto alto, una Serie A in miniatura, come si dice spesso con esagerazione. Detto del Padova, la vera squadra da titolo è la Sampdoria, retrocessa in maniera clamorosa dopo aver perso Cassano e Pazzini. Le rivali più agguerrite dei blucerchiati, sulla carta, sono il Torino di Ventura e il Sassuolo, che con la stessa rosa l’anno successivo avrebbe conquistato la promozione. Insomma, il Pescara non parte tra le favorite, ma già dalle prime giornate si segnala come possibile mina vagante del torneo. La candidatura dei biancazzurri ai posti di vertice arriva a metà ottobre: in una settimana, battono prima per 3-0 il Brescia fuori casa, poi per 4-1 l’Ascoli all’Adriatico.


Pescara-Ascoli è una rappresentazione in purezza del calcio di Zeman, nei difetti – la difesa che legge male la palla scoperta – e nei pregi. Per la prima volta, all’Adriatico si assiste a una delle giocate più riconoscibili della futura Serie A, in grado di punire anche le difese più accorte: il filtrante a rientrare di Insigne per l’ala che si inserisce sul secondo palo.

Se abbiamo imparato a conoscere il movimento come taglio Callejon, la proprietà intellettuale dell’azione andrebbe riconosciuta a Marco Sansovini, il primo a suggerire a Insigne quel tipo di passaggio. Sansovini è una leggenda del Pescara, con cui ha affrontato anche la Serie C. Lo chiamano Il sindaco, per la leadership e la dedizione alla causa. Con la partenza di Samuele Olivi è diventato capitano, ma la vera svolta di quella stagione è un’altra: dopo anni e anni trascorsi da seconda punta o centravanti, Zeman lo convince a giocare da ala destra, a piede invertito. A fine torneo segna sedici gol, come mai in carriera fino a quel momento (l’anno dopo con lo Spezia ne farà venti).

La mossa di Zeman è azzeccatissima: Sansovini ama ricevere sulla corsa, legge benissimo la profondità e dalla fascia ha ancora più spazio per preparare il taglio, soprattutto in una zona difficile da difendere come il lato cieco: «Nove volte su dieci andavamo da Insigne e non da me, perciò mi veniva più facile finalizzare. Quando vedevo Lorenzo stoppare la palla, prima che la spostasse sapevo già che sarebbe arrivata nella maniera giusta, quindi riuscivo a guadagnare quella frazione di secondo sull’avversario» spiega Sansovini. Se la connessione tra Insigne e Callejon ci è sembrata tanto naturale, è perché Lorenzinho, come lo chiamano a Pescara, ha avuto modo di affinare quell’esecuzione insieme a un altro maestro dei tagli come Sansovini.

Il gusto di Insigne per le rifiniture sul secondo palo lo conosciamo bene, ma ci sono un paio aspetti del suo calcio che purtroppo non abbiamo mai visto in Serie A. Il primo dipende dal sistema di gioco e quindi dal non aver mai avuto allenatori con le richieste di Zeman. Siamo abituati a vedere Insigne ricevere sempre sui piedi, aperto in fascia o tra le linee. A Pescara, invece, alle ricezioni sulla figura alterna con costanza tagli dietro la difesa, sia brevi che lunghi. Sono movimenti frutto dell’ossessione di Zeman per la verticalità e gli scatti senza palla. Se Immobile viene incontro, Insigne gli taglia alle spalle, dalla fascia verso l’interno, per farsi innescare da Damiano Zanon, terzino destro abile nei lanci in profondità. Se il Pescara prepara il cross dalla destra, allora Insigne può anche tagliare verso il primo palo. Insomma, una varietà di movimenti sia da ala che da attaccante vero e proprio, che Insigne non avrebbe più replicato in carriera, neanche con Sarri, visto che della profondità sulla catena di sinistra se ne occupavano Ghoulam e Hamsik.

Chi abbia visto Insigne a Pescara, però, non può non essersi innamorato dei suoi dribbling: se quell’anno è uno dei giovani più eccitanti d’Europa e sembra poter diventare un talento generazionale per l’Italia, è grazie alla sua capacità di saltare l’uomo. Un incantesimo durato solo una stagione: Insigne in Serie A non è mai stato in grado di dribblare con efficacia a causa dei suoi limiti fisici, in particolare della scarsa esplosività. Quella stessa esplosività, a Pescara, è l’ultimo dei suoi problemi. È chiaro che può c’entrare il livello dei giocatori di Serie B, ma dalle partite l’impressione è Insigne si muova con una rapidità e una frequenza di tocco diverse da quelle che abbiamo visto a Napoli. Dribbla soprattutto con le sterzate, e per il modo in cui spezza i raddoppi e salta l’uomo col primo controllo non somiglia proprio all’Insigne di oggi: è come se le corse difensive con Mazzarri e Benitez, a livello inconscio, ne avessero represso il talento nel dribbling.

Non c’è più stato un italiano in grado di dribblare con la tecnica – Chiesa lo fa in maniera diversa – e di puntare la porta come Insigne in quella stagione: «Uno così forte io non l’avevo mai visto» racconta Damiano Zanon  «era imprendibile, non sapevi mai se accorciare o se tenere un metro di vantaggio. Ricordo la partita col Torino, Darmian non sapeva più che fare».

Ciro Immobile, invece, rimane il solito animale da profondità, che estenua i difensori a furia di tagli e ama correre in transizione. Il suo primo titolo di capocannoniere, però, arriva grazie ad un uso più ricorrente dei colpi di testa. Le terziglie di Zeman mettono i terzini in condizioni di vantaggio al momento del cross, così il pallone non arriva mai in area a casaccio.


Ad attendere i traversoni non ci sono solo i tre attaccanti, ma anche gli interni di centrocampo. La mezzala sinistra Cascione, in particolare, non si occupa di attaccare la porta in corsa, ma di ricevere il cross sul secondo palo, come fanno oggi gli esterni di Conte o Gasperini. Con tanti uomini in area, per Immobile diventa più facile liberarsi da marcature e chiamare palla.

Il capitano della Lazio, di certo, in Abruzzo trova il contesto tattico ideale. La fiducia, però, non ritorna solo con il campo, ma anche in una città che già dai primi gol lo tratta come un re. Pescara è pazza di lui e durante la stagione, quando ormai è chiaro chi sia la miglior punta del campionato, sul retro di un’edicola compare un murales, non di quelli commissionati da qualche istituzione: in primo piano c’è Immobile, la maglia biancazzurra e il ciuffo biondo; sullo sfondo il Ponte del Mare, costruito tre anni prima e diventato in poco tempo simbolo di Pescara.

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La carriera di Immobile è l’esempio di quanto le relazioni umane possano fare la differenza per un calciatore. Lo capisce prima di tutti Zeman, quando a gennaio il Pescara si trova davanti una grande occasione di mercato. La Sampdoria vorrebbe cedere per questioni comportamentali il centravanti della sua primavera, Mauro Icardi. Delli Carri ha già parlato col suo procuratore, basta solo piazzare Maniero al Barletta. Prima, però, chiede un parere a Zeman: «A me andrebbe anche bene» pare abbia detto Zeman, per bocca di Delli Carri «ma tra Immobile e Maniero c’è forte amicizia, empatia, ho paura che si possa rompere un equilibrio».

La strada per la Serie A

Alla fine del girone d’andata, le previsioni estive sulle gerarchie del campionato sono andate a monte. Il Padova va a singhiozzo, la Sampdoria addirittura è fuori dalla zona playoff. Le prime posizioni se le contendono Torino, Sassuolo, Pescara e Verona. A dicembre i biancazzurri perdono per 4-2 contro la squadra di Ventura, ma sconfiggono la Samp e l’Hellas di Jorginho e Tachtsidis.

Contro i liguri, Marco Verratti diventa la pietra angolare della squadra. La prima parte di campionato non è facile per il talento di Manoppello. Gioca in maniera eccellente contro Modena e Ascoli, ma salta diverse partite per infortunio. Zeman lo converte in pianta stabile in metodista, ma in molte partite gli preferisce il brasiliano Romulo Togni. La partita con la Samp, però, è degna di un fuoriclasse. Sullo 0-0, a metà secondo tempo contende un pallone a centrocampo, va a terra, lo uncina dai piedi dell’avversario e si rialza in un unico movimento –  ancora oggi, non c’è nessuno in Europa che sappia giocare la palla da terra come Verratti. Parte in conduzione, con una finta del bacino salta un avversario e raggiunge la trequarti: taglio Sansovini, filtrante rasoterra e gol del Sindaco dopo aver scartato il portiere.

Il tackle con i piedi a pinza, la finta in conduzione e il filtrante corto negli ultimi trenta metri, sono ancora oggi alcune dei segni riconoscibili di uno dei centrocampisti più forti e singolari al mondo. Verratti è rimasto sempre fedele a sé stesso, gioca un calcio tutto suo e non lo negozia. Per quanto sia un centrocampista sofisticato, passato per le mani di alcuni degli allenatori più esigenti d’Europa, ha mantenuto la stessa attitudine ludica di quando giocava in piazza a Manoppello, dove magari era più importante scartare e non perdere la palla che fare gol: «Arrivava un certo punto in cui dieci persone andavano tutte addosso a lui a cercare di prendergli la palla, ma era impossibile», racconta un suo amico d’infanzia in un reportage di quasi dieci anni fa su una tv locale. Scena a cui ci ha abituato in Champions League e con cui avrà fatto tremare più volte i tifosi del Pescara. Lo stesso gusto per la polemica per cui, ancora oggi, protesta con l’arbitro anche se ha torto marcio e per cui ogni tanto prova a farsi giustizia da solo.

Verratti già amava chiamarsi i falli fermandosi a protestare prima del fischio dell’arbitro.

Nonostante parta metodista, il calcio di Zeman gli permette di raggiungere spesso l’ultimo terzo di campo, dove il suo istinto per i filtranti corti dietro la difesa è difficile da arginare. La differenza più grande rispetto a oggi riguarda l’atteggiamento senza palla: mentre adesso tiene bene la posizione e sa come comportarsi anche vicino la propria area, per il Verratti ventenne sembra che l’unico modo di difendere sia andare a terra in scivolata. Per il centrocampista del PSG, comunque, l’eredità dell’esperienza con Zeman non investe solo il campo, ma un rapporto col proprio corpo che forse lo limita ancora oggi: «Marco lo ricordo con Eusebio (Di Francesco nda), era ancora un bambinotto, non era impostato per fare il giocatore. Zeman gli ha detto: “O ti alleni o con me non giocherai mai”» racconta Zanon «Marco tendeva sempre a dire “No, ho male al polpaccio, ho male di qua, i medici di là…”. Era un po’ coccolato, era il gioiellino da coccolare. Zeman l’ha fatto crescere dal punto di vista calcistico e umano».

Il rush finale

Quando il Pescara sembra lanciato verso la promozione diretta, e per qualche giornata assaggia anche il primo posto, inizia però il periodo più buio della stagione. La squadra avverte un piccolo calo di forma, nella seconda metà di marzo prima pareggia contro il Brescia in casa, poi perde 3-0 ad Ascoli. La classica primavera zemaniana, quella dell’acido lattico?          Il peggio deve ancora arrivare e non ha nulla a che vedere col campo. Il pomeriggio del 30 marzo, dopo aver condotto l’allenamento dei portieri, un infarto toglie la vita a Franco Mancini, uno dei figliocci più speciali di Zeman. All’indomani, il Pescara scende in campo contro il Bari e perde 2-0, probabilmente scosso per il dolore. La settimana dopo arriva un’altra sconfitta, stavolta per 2-1 a Varese; unica nota lieta il primo gol stagionale di Gianluca Caprari, arrivato nel mercato di gennaio. Il Pescara non gira più come prima e subisce più del solito. La produzione offensiva è ancora di alto livello, ma sono troppi i gol sbagliati. Sabato 14 aprile, contro il Livorno, la situazione precipita già nel primo tempo, coi toscani in vantaggio per 2-0. Il risultato della partita, purtroppo, non interesserà a nessuno: quel pomeriggio muore in campo Piermario Morosini.                                                                          Sono giorni di shock, in quelle settimane sembra che le sconfitte abbiano generato dissapori nello spogliatoio. Forse è speculazione dire che la morte di Morosini aiuti il Pescara a ricalibrarsi, a capire che, di fronte a una tale tragedia, il calcio sia qualcosa di minuscolo, da affrontare senza soffrire la pressione. Di certo però, la partita successiva, la trasferta di Padova, si trasforma nella notte in cui il campionato del Pescara svolta, e pubblico e giocatori capiscono che la promozione arriverà. Una partita in cui svanisce ogni paura, perché il Pescara prende il calcio con la giusta leggerezza, come avrebbe fatto Franco Mancini, detto l’Higuita di Matera per il suo stile estroso. Lo suggerisce anche Cestaro, presidente del Padova: «Il Pescara ha giocato con cattiveria e voglia, sembrava volessero recuperare da quello che è successo sabato scorso».

Capitan Sansovini, nonostante giochi meno per via dell’arrivo di Caprari, ha il merito di ricompattare il gruppo: «Prima della partita avevamo litigato nello spogliatoio. Venivamo da quattro sconfitte consecutive, tutti erano nervosi. Siamo arrivati a Padova che eravamo una polveriera. Fu bravissimo Marco Sansovini, prima di cominciare il riscaldamento, a rimettere a posto le cose» racconta Emmanuel Cascione, il vice capitano, «Facemmo un cerchio in mezzo al campo e lui ci disse: “Ci stiamo giocando il campionato e dobbiamo vincere. Se non andiamo d’accordo fuori dal campo non è un problema, ma qui in mezzo dobbiamo essere uniti”. Quelle parole ci diedero molta carica, furono una scossa. Asfaltammo il Padova con quel 6-0 all’Euganeo e da lì le vincemmo tutte. È stato il bivio che ci ha portato a vincere il campionato».

Il palcoscenico se lo prende tutto Lorenzo Insigne, autore di una doppietta. Se il capitano del Napoli, in Serie B, ha un’onnipotenza nei dribbling che non avrebbe mai esibito al San Paolo, nei due gol svela al pubblico quel repertorio di esecuzioni tecniche che continuiamo ad ammirare ancora oggi: nel primo, lo stop controbalzo sulla linea laterale con cui mette a terra un campanile, giocata in cui non ha rivali neanche in Serie A; nel secondo, il tiro a giro sul palo lontano, nella terra del suo idolo Del Piero. Quando viene sostituito, a metà secondo tempo, tutto il pubblico dell’Euganeo si alza in piedi ad applaudire. Zeman, di solito impassibile nella vittoria e nella sconfitta, somatizza tutto lo stress emotivo di quei giorni e al sesto gol versa qualche lacrima.


Da quella sera, i suoi ragazzi non si fermano più e vincono sei delle restanti sei partite. La città è in fermento, per le strade e allo stadio, sulle note di Vuoto a perdere di Noemi, tutti iniziano a cantare di quanto sia bello andare allo stadio a vedere il Pescara. Le ultime partite, se vogliamo, sono un segno del destino per Insigne, Immobile e Verratti.

Alla terzultima giornata, l’Adriatico ospita il Torino di Ventura per lo scontro al vertice. Vincono i biancazzurri 2-0, reti di Insigne e Immobile. Il primo gol è un capolavoro, uno sfoggio di puro talento. Verratti disegna un lancio di quaranta metri alle spalle della difesa per il taglio di Insigne. L’ala di Frattamaggiore supera Benussi con un controllo di controbalzo calcolato al millimetro, che circumnaviga il portiere quanto basta per non fargli toccare la palla; nel tentativo di intercettare lo stop, Benussi fa male al povero Darmian. Forse è lì che si incrina il rapporto tra Insigne e Ventura, che ai microfoni prova a sminuire la giocata, «evitabile se devo essere sincero».


Domenica venti maggio a Marassi, penultima giornata, il Pescara batte la Sampdoria 3-1 e centra la promozione diretta. In tribuna, a godersi lo spettacolo, c’è Roberto Mancini: lo scorso luglio, per Insigne, Immobile e Verratti, è come se si fosse davvero chiuso un ciclo.

Le sorti dei principali protagonisti di questa storia già le conosciamo. Con chi ha contribuito alla loro esplosione, invece, il calcio avrebbe potuto essere più benevolo. Marco Sansovini non avrà mai l’occasione di assaggiare la Serie A: il suo contratto scade a giugno di quella stagione, la società non lo rinnova. Torna a Pescara nell’inverno del 2015, in prestito, per aiutare i ragazzi di Oddo a raggiungere una nuova promozione. Cascione, diventato capitano al suo posto per il 2012/13, perderà la fascia a gennaio: a indossarla sarà l’acquisto invernale Beppe Sculli.

Ferito nell’orgoglio, a fine stagione chiede di andare via. Zanon litiga coi tifosi dopo una conferenza stampa in cui accusa l’ambiente pescarese di eccessivo disfattismo. Dalle parti dell’Adriatico, per lui, solo fischi, anche quando torna con altre maglie. Riccardo Maniero, all’ultimo minuto dell’ultima giornata dell’anno di Zeman, segna il gol vittoria contro la Nocerina, che regala al Pescara il primo posto. Vivrà altre due esperienze in biancazzurro. Oggi gioca in Serie C all’Avellino.

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