C'ERA UNA VOLTA

C’era una volta la Champions

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Un telefono squilla all’infinito nella notte di Madrid. È un ordine che parte dal profondo dello stomaco, dettato forse da un preparatore atletico, diretto alle cucine del Westin Palace alla vigilia di Atletico-Milan, ritorno degli ottavi di finale della Champions League 2013-2014. Clarence Seedorf ha voglia di uova strapazzate. Due. Non è dato sapere se accompagnate con il bacon o con del pregiato Pata Negra, ma le vuole ora, in camera sua. L’uomo ama dipingere queste situazioni un po’ barocche in cui non è chiaro se stia scherzando o faccia sul serio: tanti anni fa il giornalista Luca Serafini raccontò che da giocatore Seedorf aveva chiesto e ottenuto che a Milanello ci fosse una tavola apparecchiata tutta la notte per soddisfare eventuali attacchi di fame notturni. Adesso ha chiesto a un componente del suo staff di portargli due uova strapazzate, il che probabilmente non rientra nelle mansioni specifiche di un preparatore atletico. La sera dopo, appesantito da un’incongrua terza maglia color oro posticcio come la carta stagnola dei presepi, il Milan si arrende senza lottare all’impetuoso Atletico di Simeone: allo 0-1 di San Siro segue un 4-1 al Vicente Calderon. Non è nemmeno il canto del cigno: è un rantolo afasico di un Milan spennacchiato. Il tradimento è compiuto. L’unico gol, buono per una breve illusione, lo segna Kakà. L’ultimo pallone, scagliato alla luna un istante dopo il fischio finale dell’arbitro Clattenburg, lo gioca Muntari.

Da sette anni il telefono continua a squillare. All’inizio di C’era una volta in America, per rendere concreto il senso di colpa che sta mangiando il fegato di Robert De Niro dopo che ha tradito i suoi amici alla polizia, Sergio Leone lo fa suonare a vuoto per ventiquattro volte, un insopportabile campanello mentale che David Aaronson, detto “Noodles”, cerca di spegnere abbandonandosi all’oppio. Nella primavera 2014, il telefono segna la fine del Milan europeo di Berlusconi: irritato da un Seedorf sempre più incontrollabile, che parla senza filtri con gli ultrà e disattende i consigli di basso profilo della proprietà, Galliani spiffera la storia delle uova strapazzate a due giornalisti amici del Giornale e del Corriere della Sera, i quali pubblicano la notizia una settimana dopo. La società è balcanizzata, amministrata da due dirigenti che puntano soprattutto a farsi le scarpe a vicenda in un cupio dissolvi drammatico per un club che meno di sette anni prima era in cima al ranking UEFA: entrambi ritengono di avere parecchi crediti nei confronti di Berlusconi, visto che uno è Adriano Galliani e l’altra è addirittura sua figlia. Nelle stesse ore, Paolo Maldini – eroe solitario, deluso e disilluso dalla breve e sgangherata rivoluzione vagheggiata da Barbara – rilascia un’intervista di fuoco alla Gazzetta dello Sport, efficacemente riassunta dal titolo in prima pagina: “Hanno distrutto il mio Milan”.

Proprio come nel film l’apparecchio seguita a squillare, anche se non squilla davvero. Paolo Maldini ha atteso per anni una telefonata mai arrivata dai vecchi dirigenti con cui si era congedato freddamente, con una giaculatoria di consigli inascoltati. A un certo punto, a metà di questa storia, ne ha ricevuta un’altra da una banda di equivoci faccendieri, declinandola con sdegno scambiato per spocchia. Infine, poco dopo il rintocco dei cinquant’anni, ha detto sì alla seconda chiamata, arrivata a metà luglio 2018 da Leonardo, dirigente e uomo di mondo, elegante e poliglotta, imbevuto di savoir faire. È l’uomo voluto dalla nuovissima proprietà facente capo a Elliott Management Corporation, un fondo di proprietà del finanziere Paul Singer, per rilanciare il Milan dopo la mestizia dei quattro anni precedenti. Ad agosto 2018, in occasione della sua presentazione, avevamo paragonato la rentrée di Maldini al Milan al finale di C’era una volta il West, quando la musica di Ennio Morricone sottolinea la gioiosa ripartenza di un villaggio che non vedeva l’ora di rimettersi a lavorare. Uno sguardo fiero, un’epica dei sentimenti, un romanticismo forse stucchevole nel calcio arido e professionale di oggi – qualche mese dopo, Leonardo si sarebbe incaricato di confermare questa tesi, rassegnando le ennesime dimissioni calcolate della sua carriera – ma in ogni caso sincero e aderente all’idea di milanismo posseduta dalle vecchie generazioni.

Noodles non svela mai in che modo ha speso il lungo esilio da New York a cui è stato costretto, e in fondo a nessuno importa davvero. Nemmeno lo vediamo mai salire su un treno. Dopo aver scoperto che la valigia nella cassetta di sicurezza alla stazione non contiene dollari ma solo vecchi giornali, lo vediamo comprare affranto un biglietto per un treno a caso, “il primo che parte”, direzione Buffalo, e poi avvicinarsi mestamente alla porticina che conduce ai binari. Nel 1968, quando il vecchio Moe gli sottopone la sua umana curiosità (“Che hai fatto in tutti questi anni?”), gli dà la fatidica risposta: “Sono andato a letto presto”. Allo stesso modo non è affatto appassionante ricordare cos’ha fatto il Milan in tutti questi anni, anche se lo sappiamo benissimo: su Youtube c’è un video dal potenziale emotivo devastante, in cui – sulla base di Viva la Vida dei Coldplay – sono messe in fila tutte le nefandezze dell’esistenza rossonera dal 2013 al 2020, a una velocità e una lucidità d’analisi che toglie il fiato.

Capiteci. La maggior parte di C’era una volta in America è una splendida, ipercalorica madeleine di tutto ciò che può riempire la vita di un essere umano: amicizia, amore, sesso, tradimenti, soldi, potere, ambizione, morte. Se c’è un’avventura calcistica che può avvicinarsi allo stesso risultato, essa non è quella sin troppo lineare e aristocratica del Real Madrid, per cui c’è un dato che spiega tutto: 15 finali di Coppa Campioni, 13 vittorie. È la parabola del Milan, in cui c’è stato un Maldini in sei finali vinte su sette, per non parlare di quelle perse. Così, quando il direttore tecnico dell’AC Milan tornerà ad affacciarsi all’Europa intera con le tempie ingrigite dei cinquantatré anni, gli risuonerà nelle orecchie la versione morriconiana di Yesterday (d’altro canto, la prima fermata è Liverpool) che accompagnava il ritorno a New York del vecchio Noodles. E lì partirà la sarabanda di suoni, rumori, colori, odori, profumi, sempre incoraggiata dagli ultimi sorteggi europei del suo club. Nel 2017, in un insulso girone di Europa League, il Milan trovò comunque il modo di tornare al Prater di Vienna e all’Olimpico di Atene, dove ha vinto tre delle sue sette Coppe. L’anno scorso incontrò in un colpo solo Celtic Glasgow, Lille, Stella Rossa e Manchester United, quattro delle otto squadre incontrate nell’anno dell’ultima Champions, segnando con Kjaer un gol estremamente romantico (per quanto inutile ai fini della qualificazione) nella stessa porta in cui Shevchenko aveva infilato il rigore decisivo nella finale del 2003, la prima Coppa alzata da capitan Maldini quarant’anni dopo che suo padre Cesare aveva compiuto lo stesso gesto a Wembley.

Quest’anno il sorteggio si è svolto a Istanbul, e davvero basta la parola. La quarta fascia ha costretto il Milan a incrociare tre avversarie di grande fascino e di evidente significato storico: il Liverpool, e ribasta la parola; l’Atletico Madrid, ultima squadra incontrata in Champions prima della traversata nel deserto; il Porto, ultima squadra a incontrare (ed eliminare) il Milan in Coppa Campioni nel 1979-80, l’ultima senza Paolo Maldini in campo o dietro la scrivania. Curiosamente però, abitano tre stadi in cui il Milan non ha mai messo piede. È clamoroso che in oltre sessant’anni di Coppe Europee non abbia mai fatto visita neanche una volta ad Anfield (Maldini c’è stato solo in veste amichevole nel marzo 2019, per una partita di beneficenza tra vecchie glorie – o, come si dice oggi, legends), è più comprensibile che non si sia mai affacciato nel nuovissimo Wanda Metropolitano inaugurato solo nel 2017, è tristemente normale che non abbia mai messo piede nell’Estadio do Dragao, casa del Porto da poco meno di vent’anni, perché quel ventennio europeo il Milan l’ha frequentato solo per metà. Nomi vecchi, luoghi nuovi, avanti e indietro, il meccanismo perfetto, cesellato negli anni, di Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, gli sceneggiatori prediletti di Leone.

Davanti alla porta a specchio che lo riconduce in Europa ricorderà, Paolo Maldini, per prima cosa, dell’unica volta che ha pianto durante una partita di calcio, la sua educazione siberiana. Era al Marakana di Belgrado, il 9 novembre 1988, mentre Donadoni ci stava lasciando la pelle, trascinato per i capelli all’ospedale dopo uno scontro con il numero 3 della Stella Rossa Vasiljevic che lo aveva lasciato esanime sull’erba. Mentre i giocatori erano blu dalla paura e Giovanni Galli camminava disperato con le mani sulla testa, Ruud Gullit era stato mandato in campo in fretta e furia da Sacchi malgrado non si reggesse in piedi, nel mormorio di paura dello stadio: la prima cosa che fece fu andare da Maldini, riconoscendo in quel frangente l’infanzia di un capo, e riportarlo alla ragione con uno schiaffo in pieno viso. Il rumore di quel ceffone lo trasporterà in semifinale, al pallone strozzato di sinistro solo davanti a Buyo, la notte che il Milan di Sacchi abbassò il volume a tutto il Bernabeu.

Si ricorderà, con lo sguardo perso nella tv di un pub che ritrasmette la frenetica Liverpool-Chelsea in un 4K tanto nitido da sembrare irreale, delle prime galoppate sulla fascia sinistra dell’Europa unita, a Sofia come ad Atene, al Prater e al Camp Nou, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera dove Stefano Borgonovo tolse tutti dai pasticci, prima di inciampare in un brutto male. Flashback spontanei, veri agguati della memoria come gli episodi del film con i protagonisti bambini alle prese con una famelica età dell’innocenza: così il Milan di Sacchi era adolescenza pura, ottimismo della volontà. Il primo gol a Bratislava nel 1992, la finale contro il Barcellona da difensore centrale accanto a Filippo Galli, con Baresi e Costacurta squalificati, e loro due che non fanno toccare palla a Romario e Stoichkov, concedendo a Sebastiano Rossi il lusso di concludere una finale di Coppa dei Campioni con un senza-voto in pagella. Maldini il più amato degli italiani, fidanzato dei sogni e atleta modello, come voleva quel famoso cartellone pubblicitario della Nike: “Il portiere della Nazionale Italiana è il lavoro più facile d’Europa”.

Ogni tanto ricomparirà il presente. Se davvero in tutti questi anni è andato a letto presto, Maldini ordinerà una pinta e guarderà qualche minuto di una partita di Premier League, trasalendo nel vedere l’arbitro che assegna un rigore dopo aver guardato a lungo in un monitor a bordo campo. Ci fosse stato con l’arbitro Pauly a Belgrado 1988, o con Fredriksson a Madrid 1989… In una tempesta interiore gli ronzeranno in testa senza preavviso altri passaggi di quell’intervista-testamento del 2014 alla Gazzetta: “Al Milan è rimasta solo la passione, non ci sono più idee né progettazione. Barbara Berlusconi non è esperta di calcio né di calciatori. Il Milan è indietro anni luce rispetto a squadre ben più piccole”. Sullo smartphone aziendale gli manderanno una clip che annuncia la prossima ventura Atalanta-Manchester United, Gasperini contro Cristiano Ronaldo, e lui scuoterà le tempie ingrigite per annuire. Inizierà a guardare su Youtube una clip dei 65 gol in 65 partite di Haaland col Borussia Dortmund e gli girerà ben presto la testa, come uno che si svegliasse da venticinque anni di coma con un paio di cuffie che trasmettono musica techno a palla. Poi verrà di nuovo sopraffatto dai ricordi.

L’adolescenza lascia spazio all’età adulta, in cui Noodles e il suo grande amico Maximilian “Max” Bercovicz coltivano personalità differenti al servizio degli stessi progetti, via via sempre più ambiziosi, velleitari, confusi: un delirante piano per svaligiare la Federal Reserve è la goccia che fa traboccare il vaso. Invece Maldini non ha complici ma agisce in splendida solitudine: è il capitano che rinuncia alla Nazionale per ritagliarsi un finale di carriera perfetto, con il trionfo di Manchester 2003 in capo alla miglior stagione della carriera. La musica di Haendel che scandisce le vigilie di Champions League, così solenne e struggente nel suo infinito ricorrere, è la sua personale “Amapola”. Le notti di Coppa e l’ideale che esse stesse sottendono – una giovinezza eterna e impossibile, un sogno di gloria da prolungare all’infinito – sono il grande amore della sua vita, “nessuno ti amerà mai come ti ho amato io”, anche se si tratta di violentarsi a vicenda con la balorda partita di Istanbul in cui passò in un paio d’ore dall’estasi suprema – il gol dopo 50 secondi, un primo tempo da mille e una notte, il Pallone d’Oro… – alla delusione più bestiale. Maldini è stato più fortunato di Noodles, il tempo e le cose del calcio gli hanno concesso una seconda chance con la sua personale Deborah: la rivincita sul Liverpool ha completato un cerchio che Sergio Leone rifiutò di chiudere, perché molto raramente la vita è perfetta come la biografia di Paolo Maldini.

Di nuovo il presente. Maldini noterà un cartellone con Leo Messi che mostra fiero la sua nuova maglietta del PSG numero 30 e subito incrocerà il suo nome nella cartella stampa che gli ricorda che Messi è il miglior nemico del Milan, il calciatore ad avergli segnato più gol tra tutti quelli che non hanno mai giocato in Italia. Cercherà di capire le norme che sottendono al fair play finanziario e gli sembreranno una cosa sporca, incomprensibile, ipocrita, come il sindacalista irlandese corrotto Jimmy Conway che alla fine trama contro i suoi vecchi compagni d’affari (ad aprile Maldini è andato in televisione a denunciare il suo no alla Superlega e a cospargersi il capo di cenere domandando scusa ai tifosi, e il suo è sembrato l’unico parere sinceramente contrito). Proverà a citofonare in via Turati 3, ma vi troverà solo etichette di studi legali e altri marchi incomprensibili; chiederà spiegazioni in portineria e gli diranno che si sono trasferiti da tanti anni ormai, al Portello, in uno spiazzo grigio e assolato che probabilmente è l’unica piazza senza alberi di Milano. Nel lungo viaggio in taxi farà la lista delle cose che non ci sono più, non necessariamente dispiacendosene: il palo di Niang nel deserto della metà campo del Barcellona, la fiscalità spagnola, i bolsi cavalloni di ritorno tipo Essien o Kakà, gli attaccanti elemosinati al citofono, i finti hackeraggi degli account Instagram. Quindi scorrerà sul tablet la lista delle persone da andare a ritrovare.

Per prima cosa scoprirà che Clarence Seedorf ha accettato di snocciolare tutta la sua sapienza calcistica da quelli di Amazon, dove il catering sarà certamente di prima qualità. Buon per lui. Rintraccerà in una casa di riposo di lusso i suoi vecchi boss Silvio e Adriano, trovandoli assorti nella visione di Diretta Gol Serie B. Scoverà nei titoli di coda del gruppo A il contatto del suo amico Pep, che gli aveva dedicato la sua prima Champions League da allenatore, vinta a Roma il 27 maggio 2009 tre giorni dopo che Maldini aveva salutato San Siro per l’ultima volta da calciatore. Lo troverà sempre in forma, sempre elettrico, sempre apparentemente ben disposto verso l’umanità intera e come sempre, quando gli chiederà: ma perché non vieni ad allenarci?, svicolerà la questione con un ghigno nervoso: ora devo proprio andare. Incrocerà brevemente simpatici caratteristi da quarta fascia come Jon Dahl Tomasson e Mark Van Bommel, ingrigiti anche loro nello stressante mestiere dell’allenatore. Farà visita a Leonardo, che nella visione delle cose dovrebbe recitare il ruolo del traditore, del Max diventato senatore Bailey: aveva portato via al Milan prima Ibrahimovic e Thiago Silva nel 2012 – l’inizio della fine – e quest’estate anche Donnarumma, lasciandogli nella cassetta di sicurezza vecchi giornali al posto degli agognati petrodollari. Non importa, non ci sarà mai astio tra i due: è stato Leonardo a riportare Paolo al Milan e di conseguenza alla vita, a interrompere l’esilio un po’ forzato un po’ orgoglioso a cui si era costretto negli anni. Piuttosto, Maldini fingerà di non riconoscerlo e non riconoscersi nell’ossessione di una Champions League da vincere a tutti i costi (Leonardo, sventurato lui, da giocatore non ne ha vinta neanche una).

Il Calciatore di B di settembre 2021: Lorenzo Lucca
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