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Federico Gatti e la mistica dei giocatori operai della Juventus

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Ce n’è uno per ogni generazione, di giocatori finiti per chissà quale motivo fuori dalle attenzioni delle grandi squadre. Giocatori sulla cui crescita, a un certo punto della loro carriera, in pochi avrebbero scommesso. Persino quelli che avevano creduto in loro si sono sorpresi come tutti gli altri quando sono stati accostati a squadre come la Juventus, che intorno a questi giocatori ha costruito una parte della sua identità. Giocatori operai, li chiamerebbe qualcuno, la cui ultima espressione, nella squadra bianconera, è Federico Gatti.

Certo, hanno contato le buone prestazioni a imporre Gatti all’attenzione dei media, oltre a quelle di Luciano Spalletti. Hanno contato i due gol segnati in questo inizio di stagione. L’ultimo, al Monza, è stato addirittura decisivo per l’assegnazione dei tre punti. Sono serviti alla Juventus per issarsi in testa alla classifica, anche solo per quarantotto ore, una scalata che sa di rinascita dopo tre stagioni difficili.

Nell’ambito della serata di gala organizzata per il Golden Boy, il premio di Tuttosport al miglior Under 21 che pochi giorni fa ha celebrato il talento cristallino di Jude Bellingham, Gatti ha ricevuto il premio Fair Play intitolato a Gaetano Scirea. Accostare i nomi di Bellingham e Scirea a quello di Gatti è una roba che fa tremare i polsi. Bellingham è il giocatore più cool del pianeta, e oggi anche uno dei più forti. L’inglese ne è consapevole, al punto da dire cose come: «Sono nato per giocare al calcio a grandi livelli». È una frase che uno con la storia di Gatti non avrebbe mai potuto dire. Fino a qualche tempo fa temeva per la sua stessa carriera, che sembrava impossibile potesse produrre una traiettoria come quella che ha vissuto Gatti nell’ultimo anno. Il calcio è il gioco più popolare al mondo forse proprio perché in campo c’è spazio per giocatori diversissimi, per storia e per caratteristiche, come lo sono lo juventino e il nuovo campione del Real Madrid.

L’accostamento con Scirea invece sembra lontano solo in apparenza. Scirea aveva origini umili: un papà operaio di origini siciliane, impiegato alla Pirelli; lui stesso con un lavoro da tornitore, quando già aveva esordito in Serie A con l’Atalanta. Scirea reclamava per sé un posto in campo attraverso un altro tipo di coolness. Non la discendenza naturale, il diritto divino dei Bellingham, come degli Zidane, dei Beckham, la semplicità con cui riescono le cose difficili ai giocatori di talento. Piuttosto la nobiltà della fatica, dello sporcarsi, della disciplina. Del lavoro di lima fatto intorno a un gesto eseguito sui campi di allenamento, giorno dopo giorno dopo giorno, fino a renderlo perfetto come un prodotto artificiale.

Nella sua carriera Gatti ha passato più di un brutto periodo. Dopo la trafila nelle giovanili del Torino, scompare dai taccuini degli osservatori. Finisce in squadre di Promozione ed Eccellenza, che sono i gradini più bassi della nostra piramide calcistica. La sua carriera torna indietro, anziché avanzare. Mille lavori, tra cui il muratore, da affiancare agli allenamenti; fino alla chiamata della Pro Patria, che lo porta per la prima volta tra i professionisti. Da lì il Frosinone, l’interesse del Torino che si riaccende, la rapacità e l’anticipo della Juventus sul mercato, la storia che conosciamo. Guido Angelozzi, il DS del Frosinone, sottolinea con una specie di orgoglio: i giocatori nelle categorie più basse hanno le motivazioni giuste per sfondare. Gatti racconta che quando entra in campo tutto sparisce dalla sua testa: le difficoltà, i problemi, tutto si allontana in un istante; ci sono solo i compagni, gli avversari e la palla. Gli succedeva in Serie D, gli accade ancora oggi, è un meccanismo di difesa che gli ha permesso di andare avanti anche quando tutto intorno gli diceva di smettere. Ma se la sua testa dimentica, è il suo corpo a ricordare.

La partita di Gatti è una continua lotta per la sopravvivenza. Autoritario sui palloni alti, tenace nella marcatura, attaccato alla schiena di un avversario per tutto il campo. Commovente persino, quando si allunga sulla fascia come un’ala consumata, quando prova a togliere pressione ai suoi compagni, sotto assedio da un po’. Se la mette addosso tutta lui da solo, quella pressione, perché lui la può reggere, lo ha già fatto in passato.

C’è un filo rosso, che parte da lontano e unisce Gatti, Scirea e tanti altri che sono passati dalla Juventus. A partire da Pietrino Anastasi, figlio di Sicilia, che con i bianconeri ha segnato 78 reti in Serie A e conquistato tre scudetti. Sgraziato, ma fulmineo e implacabile sotto porta, Anastasi per i suoi catanesi era “‘U turcu”, per la carnagione olivastra, troppo scura anche per quelle latitudini. È diventato un simbolo al di là del calcio, forse suo malgrado. Per lo scrittore Alessandro Baricco: “Finì per essere il simbolo vivente di un’intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord”. Ad Anastasi si guardava per trovare conforto: almeno lui ce l’aveva fatta.

Negli anni Novanta, la prima Juventus di Marcello Lippi aveva in dote Fabrizio Ravanelli e Moreno Torricelli. Il primo è arrivato a Torino quando già gli avevano appiccicato la fastidiosa etichetta di “attaccante di categoria”. L’altro era privo anche del pedigree rimediato attraverso la gavetta: Torricelli faceva il falegname e con il calcio si dilettava. Dalla Caratese è passato alla Juventus, con la complicità di un’amichevole tra le due squadre, una di quelle partite che di solito non contano niente. Novanta minuti in cui avrà dato l’anima, come poi ha continuato a fare per sei anni, sei stagioni in cui Torricelli con la Juventus ha vinto tutto.

E poi ancora, negli anni Duemila, Vincenzo Iaquinta, calabrese trapiantato in Emilia, che parte dal Reggiolo per arrivare a Berlino, e tenere alta sulla testa una Coppa del Mondo. Nella Juventus post-Calciopoli, 40 gol e molto sudore in ogni zona del campo. L’epica dell’attaccante di fatica, lui un po’ come Ravanelli, a cui non basta il gol per giustificare la sua presenza, in mezzo agli altri, se non passando per l’espiazione dell’esaurimento fisico.

Ce n’è uno per ogni generazione, sembra quasi che alla Juventus serva un profilo del genere in rosa. Il mito della classe operaia che va in paradiso è stato forse alimentato ad arte negli anni Settanta, ai tempi esacerbati dalle lotte sindacali. La Juventus è stata – ed è ancora – legata a doppio filo alla famiglia Agnelli ed è stata raccontata via via come un costoso passatempo o il gioiello più prezioso della corona, a seconda delle alterne fortune della squadra. Ai tempi era forse in corso un tentativo di avvicinamento del padrone ai sottoposti. O comunque una dimostrazione un po’ propagandistica di come, massimizzando gli sforzi, a nessuno era preclusa un’opportunità per sfondare. La Juve era il sogno americano della Serie A.

Oggi una dialettica del genere avrebbe poco senso, il legame che teneva insieme Mirafiori e Vinovo si è quasi dissolto. L’ultima fiammata c’è stata nel 2018, quando l’arrivo di Cristiano Ronaldo ha innervosito ancor di più gli operai degli stabilimenti Fiat di Melfi e Pomigliano d’Arco, in cassa integrazione da lungo tempo. Scene che negli anni Settanta e Ottanta erano all’ordine del giorno. Ai giorni nostri c’è voluta un’operazione stellare, di grande rilievo mediatico ed economico, per far sì che venissero rispolverati i vecchi meccanismi.

In campo, però, è dove l’epica si rinnova. La Juventus è sempre – o torna a esserlo ciclicamente – la grande squadra che gioca con lo spirito di una provinciale. Un memento mori che deve rinnovarsi. Forse l’uomo che conosce meglio il DNA del club, tra squadra e società, è proprio il tecnico Massimiliano Allegri. A Gatti, che l’estate scorsa aveva tra le mani un’offerta del Nottingham Forest, aveva detto: resta e sarai protagonista. Aveva riconosciuto che gli ingredienti della storia personale del calciatore ben si sposavano con la cultura del club e non si sbagliava.

Nel racconto degli sconfitti, che ribaltano il tavolo con le ultime forze rimaste, la Juventus si identifica. Solo così il “fino alla fine” può diventare in campo qualcosa di più di un vecchio motto.

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